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Non ci resta che piangere (di G. Pizzo)

Non ci resta che piangere

 

Il comunicato con cui la società Bar s.r.l., esercente l’attività presso Villa Zito della Fondazione Sicilia, prende le distanze dal rinomato chef Mario Di Ferro sembra la lettera che scrivevano Benigni e Troisi a Savonarola nel noto film “Non ci resta che piangere”.

Si esprime sconcerto per i fatti di cronaca, accertati a mezzo stampa.

La società esprime, a firma del suo legale rappresentante “Il più profondo rammarico e la sua più sincera mortificazione per l’esposizione mediatica cui ha indirettamente sottoposto la fondazione”. Tutto forse è scatenato da un’intervista rilasciata oggi ad un quotidiano nazionale da parte dell’ex presidente della Fondazione, il già Chiarissimo Gianni Puglisi, che si era detto sconcertato dal livello in cui tutto era sprofondato dopo di lui. La società si ritiene estranea a tutto quello che succedeva in quanto da un anno aveva affittato il ramo d’azienda ad un’altra società di cui era amministratore proprio il Di ferro. Che però non pagava alla Società Bar srl i canoni non consentendo il risanamento di una società che da queste dichiarazioni, pur avendo sempre il pienone, non se la passava bene. Sembra chiaro l’intento di scaricare sul capro espiatorio Mario Di Ferro, che prima veniva difeso come un fratello buono e generoso, il fio della colpa. E scongiurare quindi la probabile rescissione contrattuale. Quello del capro espiatorio è un tipico comportamento palermitano. Uno deve pagare, soprattutto narrativamente, per tutti, onde non si propaghi il danneggiamento per amici e sodali.

Sembra alquanto inappropriato dal punto civilistico e giurisdizionale questo comunicato che parla di cessioni, debiti, crediti non esiti, risanamenti virtuali. Un commercialista o un avvocato salterebbe ro dalla sedia a leggere queste parole. Ma servivano a calmare un’opinione pubblica o qualcuno in particolare. Prendere le distanze dal cattivo di turno, l’unico colpevole in mezzo a santi, poeti e navigatori di segrete stanze. La classica ipocrisia di una città provinciale che cerca streghe e stregoni da bruciare invece di farsi un esame di coscienza plurale e collettivo. C’è lo stregone Mario, prima da blandire, anche solo per uno sconto sul catering della comunione, ora da mandare al rogo. È lui il colpevole, noi, tutti noi, la società perbene palermitana, non c’entriamo. L’onore della famiglia è salvo. Ma quello è un altro film.

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