Giovani che uccidono giovani: Palermo allo specchio della sua violenza

Dalla movida dell’Olivella a Monreale, fino al sogno spezzato di Rosolino Celesia: la Sicilia dei ventenni che non conoscono più il limite.

Palermo, violenza e criminalità senza tregua: l’omicidio di Paolo e la deriva di una città smarrita

Dopo l’uccisione del 21enne Paolo Taormina, migliaia di persone in piazza per chiedere sicurezza e giustizia. Ma l’omicidio segue una lunga scia di sangue che racconta il fallimento di una generazione e l’assenza dello Stato nei territori.

Palermo 13 ottobre 2025violenza giovanilecriminalitàmovidagiustizia

Non è più cronaca: è un grido d’allarme. Palermo e la sua provincia stanno diventando il teatro di una violenza diffusa che non ha più confini, né limiti di età. L’omicidio di Paolo Taormina, 21 anni, non è un episodio isolato: è il simbolo di una deriva culturale e morale che tocca ogni quartiere e attraversa un’intera generazione.

L’omicidio che ha scosso Palermo

Paolo, 21 anni, lavorava nel locale di famiglia in via dell’Olivella, a due passi dal Teatro Massimo. È intervenuto per sedare una rissa e un colpo di pistola gli ha tolto la vita. Il presunto autore, il 28enne Gaetano Maranzano, ha confessato dopo poche ore. Sui social, poco prima, aveva pubblicato un video con catene d’oro e un ciondolo a forma di pistola, accompagnato da frasi che rievocano modelli criminali. Un’immagine agghiacciante di ostentazione e arroganza, che oggi rappresenta la nuova frontiera dell’illegalità giovanile: il crimine come spettacolo, la morte come notorietà.

Una scia di sangue che non si ferma

La morte di Paolo si inserisce in un contesto più ampio e sempre più inquietante. Solo pochi mesi fa, a Monreale, una sparatoria in strada ha ucciso tre ragazzi di vent’anni: Massimo Pirozzo, Salvatore Turdo e Andrea Miceli. Poco tempo prima, a Balestrate, un’altra lite fuori da una discoteca si era conclusa con l’uccisione di un giovane. E ancora, il caso di Rosolino “Lino” Celesia, promessa del calcio palermitano, colpito a morte in una colluttazione. Tutti giovani, tutti siciliani, tutti vittime della stessa follia: una cultura della forza, della sopraffazione, dell’odio gratuito.

Questi omicidi hanno il sapore di un paese malato, di una città malata, dove la vita sembra aver perso valore e la violenza è diventata linguaggio comune. Una generazione di ragazzi che non conosce più il limite, che non teme le conseguenze, che vive nell’illusione di un potere immediato e impunito. L’idea che “non succederà nulla” è ormai una certezza, alimentata da anni di indulgenza, di giustificazioni sociologiche e di scarsa applicazione delle pene.

Il falso mito del rispetto criminale

Molti di questi giovani crescono in contesti difficili, ma il degrado sociale non può diventare alibi. La cultura del “boss di quartiere”, del rispetto ottenuto con la paura, si trasmette come un virus: attraverso la musica, i social, la strada. La pistola diventa status, la collana d’oro un simbolo di potere, il linguaggio violento un codice di appartenenza. E così Palermo si ritrova a convivere con una nuova forma di criminalità: non organizzata ma spontanea e contagiosa, fatta di branchi, sfide, prove di forza, dove uccidere diventa l’estrema forma di visibilità.

La rivolta civile: migliaia in piazza per Paolo

Nel cuore della città, da piazza Massimo fino a piazza Politeama, migliaia di persone hanno sfilato in silenzio per ricordare Paolo e chiedere sicurezza. Una manifestazione spontanea e imponente, segnata dalla rabbia e dal dolore. In molti hanno contestato il sindaco Roberto Lagalla, ma la colpa non può essere solo politica. Il primo cittadino ha il dovere di pretendere dal prefetto, dal questore e dal Ministero dell’Interno presidi costanti, controlli capillari, prevenzione vera. Ma ciò che serve, soprattutto, è un risveglio collettivo: una città che non si abitui più alla paura.

Il paradosso della normalità

Nel luogo dell’omicidio, quella stessa notte, i pub sono rimasti aperti, i tavoli pieni, la musica accesa. Nessuna saracinesca abbassata, nessun segno di lutto. Un gesto mancato che racconta la divisione di Palermo: chi piange e chi continua come se nulla fosse. La normalità è diventata complicità. E finché la comunità non reagirà unita, nessuna forza di polizia potrà restituire sicurezza a una città che non riconosce più se stessa.

Un sistema che non punisce

Alla base di questa degenerazione c’è un messaggio chiaro: l’impunità. Troppi reati finiscono nel nulla, troppi minorenni tornano in strada il giorno dopo, troppi adulti violenti scontano pene ridicole. Si invoca la fragilità, il disagio, la povertà. Ma non si parla più di responsabilità. E così, tra un tribunale che rinvia e una società che assolve, il crimine trova spazio, cresce, si legittima. La giustizia deve tornare ad essere certezza, non un optional di fronte al dolore delle famiglie.

Palermo, oggi, non ha bisogno di retorica. Ha bisogno di verità, di coraggio e di leggi applicate. Ha bisogno di Stato. Perché ogni volta che un giovane uccide un altro giovane, non muore solo una vita: muore una speranza di civiltà.

 

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