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In Italia chi ha un passaporto falso non può morire di fame

Documenti falsi, fondi pubblici e due vittime. Un caso che smaschera l’Italia dei finanziamenti senza controlli.

In Italia chi ha un passaporto falso non può morire di fame

Uccide la moglie e la figlia di 12 mesi, ma prima si faceva finanziare dal Ministero della Cultura con documenti falsi. Nessun film, solo truffe e sangue.

In Italia basta costruirsi un’identità finta per vivere meglio di tanti onesti cittadini. Il caso del regista omicida, con passaporto falso e fondi pubblici in tasca, è solo l’ultimo capitolo di un sistema che premia l’inganno e la menzogna, in nome della cultura.

Finanziato con documenti falsi

Un passaporto tarocco. Progetti inesistenti. Nessun film girato. Ma migliaia di euro ottenuti dal Ministero della Cultura, come “promettente regista”. L’uomo che oggi riempie le cronache per aver assassinato la moglie e la figlia di 12 mesi non era affatto un emarginato. Viveva in Italia come tanti altri furbi, costruendosi una carriera con le bugie, alimentate da un sistema che non controlla, non verifica, non reagisce. Il risultato: soldi pubblici finiti nelle mani di un truffatore e omicida.

Eppure, chi lavora ogni giorno con la Pubblica Amministrazione sa bene quanto siano rigidi e formali i controlli anche per piccoli progetti. Per ottenere un semplice contributo da qualche migliaio di euro, serve presentare la fedina penale pulita, compilare l’articolo 80 del Codice degli Appalti, avere un DURC regolare e dimostrare di non avere pendenze con l’Agenzia delle Entrate-Riscossione. In caso contrario, il pagamento non arriva. Nessuna deroga, nessuna eccezione. Ma allora viene da chiedersi: perché tanta severità verso chi lavora onestamente e tanta tolleranza – se non vera e propria negligenza – verso chi, con documenti falsi e curriculum fittizi, riesce a ottenere fondi importanti spacciandosi per artista?

L’Italia dei finanziamenti a pioggia e delle lobby intoccabili

Negli anni passati, in particolare durante alcune gestioni ministeriali precedenti, si è assistito a una distribuzione generosa e poco selettiva dei fondi, spesso orientata da logiche culturali autoreferenziali. Chiunque presentasse un progetto “culturalmente rilevante” aveva buone possibilità di ottenere fondi, specie se inserito in ambienti consolidati e vicini a certe correnti ideologiche. In questo contesto, è stato possibile per personaggi ambigui, con identità dubbie e senza meriti verificabili, accedere a risorse pubbliche con estrema facilità. E oggi ci si ritrova a pagare non solo in euro, ma in vite umane.

Un’eccezione significativa è stata rappresentata dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, che ha cercato di introdurre criteri più rigorosi, meritocratici e trasparenti per l’assegnazione dei fondi pubblici nel settore cinematografico. Una posizione che gli è valsa numerose critiche da parte di esponenti del mondo culturale e cinematografico tradizionale – attori, registi, produttori – che per anni avevano beneficiato di un sistema molto permissivo. Alcuni di questi soggetti, secondo quanto emerso anche da inchieste giornalistiche, non avrebbero mai realizzato neppure uno stralcio di film, altri si limitavano a opere definite “di nicchia”, spesso viste solo da pochi amici o familiari, mentre i finanziamenti risultavano ingenti e puntualmente erogati.

Immigrazione, finta identità, vera impunità

Chi arriva in Italia lo sa: qui puoi rifarti una vita, anche se falsa. Ti dichiari perseguitato, inventi una storia credibile, ti autodefinisci gay o artista, e il sistema ti protegge, ti premia, ti finanzia. Il caso di questo “regista” omicida è lo specchio di un’Italia disarmata, che consente a chiunque di reinventarsi tutto, anche il passato. Alla fine non sappiamo chi stiamo davvero aiutando, né con quali conseguenze.

Non è una novità. In Italia l’appartenenza politica è spesso più importante della trasparenza, e nella cultura come nell’immigrazione si è visto fin troppo chiaramente. Da anni si è affermata una narrazione secondo cui accogliere sempre e comunque è un dovere morale, anche a costo di aggirare ogni regola. Non serve più avere documenti falsi: per entrare nel Paese, spesso è preferibile non averli affatto. Una volta dentro, basta dichiararsi in pericolo, magari aggiungendo “sono gay e nel mio Paese sono discriminato”, e il meccanismo della protezione si attiva. Il risultato? Un sistema dove chi mente ha buone probabilità di farla franca, mentre lo Stato italiano viene aggirato, sfruttato, talvolta anche disprezzato.

Questo è possibile grazie a un’impostazione ideologica precisa, che da anni trasforma ogni irregolarità in un diritto da tutelare. Un modello che trova terreno fertile in una sinistra progressista sempre più radicale e identitaria, dove l’avanguardia si traduce troppo spesso in sottomissione culturale della nostra comunità nazionale. Il consenso si costruisce anche così: un’accoglienza senza filtri equivale a un voto in più. E il prezzo lo pagano gli italiani onesti, lasciati soli in nome di una “missione” che sa sempre meno di solidarietà e sempre più di strategia politica.

Chi arriva in Italia lo sa: qui puoi rifarti una vita, anche se falsa. Ti dichiari perseguitato, inventi una storia credibile, ti autodefinisci gay o artista, e il sistema ti protegge, ti premia, ti finanzia. Il caso di questo “regista” omicida è lo specchio di un’Italia disarmata, che consente a chiunque di reinventarsi tutto, anche il passato. Alla fine non sappiamo chi stiamo davvero aiutando, né con quali conseguenze.

La verità non è questione di partito

Un lettore, dichiaratamente vicino al Partito Democratico, mi ha scritto: «Tu scrivi così perché sei di parte». Mi permetto di rispondere pubblicamente: per non essere di parte dovrei forse omettere fatti e verità? Raccontare ciò che accade, anche quando dà fastidio, non è militanza, è dovere. È la narrazione accomodante, silenziosa o ipocrita a essere davvero faziosa. Il giornalismo ha senso solo quando è scomodo. E se per alcuni “essere di parte” significa dire le cose come stanno, allora lo rivendico. Perché la realtà non si piega alle convenienze politiche.

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