Il prezzo del potere: chi si piega vince, chi merita perde, ma non sempre
Ogni persona ha una sua storia, un suo vissuto, una sua vita: il rispetto della dignità individuale

Il sistema clientelare che frena l’Italia e soffoca il talento
Ogni persona ha una sua storia, un suo vissuto, una sua vita: il rispetto della dignità individuale.
In questo Paese il potere non cambia mai davvero. Cambiano i governi, cambiano i partiti, ma per taluni elementi il meccanismo resta lo stesso: “Io ti do un posto di lavoro, tu mi devi a vita il voto”. È il sistema che regge l’Italia da decenni, quello della pacca sulla spalla, del favore che non è mai un favore ma un’ipoteca sulla vita delle persone. Ma c’è di peggio: l’uso della cosa pubblica per scopi privati e di vendetta politica.
Il potere diventa strumento di esclusione, si usa l’amministrazione come un portafoglio personale, decidendo chi può esistere e chi no, chi può lavorare e chi deve essere messo da parte. Progetti meritevoli non passano, iniziative di valore vengono affossate non perché inutili, ma perché non allineate al sistema di favori e fedeltà. E così, invece di servire il bene comune, si serve il proprio tornaconto, si usano le leve della pubblica amministrazione per premiare gli amici e punire i nemici.
La politica, l’amministrazione, il potere in tutte le sue forme hanno spesso una visione miope dell’essere umano. Si discute di numeri, di categorie, di elettorati, di strategie, ma si dimentica che dietro ogni decisione, dietro ogni proclama, c’è una persona con un vissuto unico, con emozioni, esperienze, difficoltà e speranze.
Non si governa con una visione, non si amministra per il bene collettivo. Si distribuiscono poltrone, contratti, appalti in cambio di fedeltà eterna, in una logica perversa che non è più solo clientelismo, ma un vero e proprio atto di sottomissione. Un tempo il servilismo si comprava con poche lire, oggi con stipendi pubblici, con ruoli nelle partecipate, con nomine negli enti. Il sistema resta intatto: chi prende, deve restituire. Non è un do ut des tra pari, è una catena che incatena i più deboli.
La dignità non è merce di scambio
Viviamo in una società che troppo spesso considera l’individuo solo nella dimensione del dare e avere, un meccanismo freddo e transazionale dove il valore di una persona è misurato in base a ciò che può offrire o restituire. Questa logica si insinua ovunque: nel lavoro, nella politica, nei rapporti sociali. Il potere si esercita con la pacca sulla spalla, con il favore elargito come merce di scambio, con il sottinteso obbligo di gratitudine.
Eppure, questa pratica viene raccontata come politica, come consenso, come democrazia. Ma la democrazia non è un voto ricattato, non è il timore di perdere il posto, non è la necessità di dire sempre di sì al padrone politico di turno. La vera politica è servizio, è visione, è costruzione. Ma in Italia, per troppi, è ancora baratto di sopravvivenza.
E così chi è nel bisogno diventa merce, e chi governa si sente padrone della vita delle persone. Il messaggio è chiaro: senza di me non sei nessuno, senza di me non hai un futuro. Una prepotenza mascherata da assistenzialismo, che crea dipendenza invece di emancipazione. Perché chi ha fame non si ribella, chi ha paura non contesta, chi ha un lavoro concesso dall’alto non osa alzare la testa.
Uno non vale uno: il merito contro il clientelismo
Uno degli errori più grandi della politica di oggi è l’idea che uno valga uno, che tutti abbiano lo stesso peso e la stessa capacità di incidere indipendentemente dal loro percorso, dalla loro competenza e dal loro merito. Ma non è così. Uno non vale uno quando il merito viene sacrificato sull’altare del consenso elettorale. Il lavoro, lo spazio nelle istituzioni, i ruoli pubblici dovrebbero essere assegnati a chi li merita, a chi ha dimostrato capacità, esperienza, sacrificio. Invece, il sistema clientelare annulla questa logica, premiando la fedeltà anziché il talento, l’obbedienza anziché la competenza.
Ed è qui che la politica gioca la sua partita più sporca: chi ha bisogno, chi ha talento, chi vorrebbe emergere, viene soffocato da chi si è piegato al sistema. Chi si oppone, chi non vuole scendere a compromessi, chi rifiuta di essere parte del meccanismo viene escluso, etichettato come “scomodo”. Il risultato è un Paese che non cresce, che non premia i migliori, ma solo i più servili.
Il meccanismo perverso del potere
Ed è qui che la politica gioca la sua partita più sporca: chi ha bisogno, chi ha talento, chi vorrebbe emergere, viene soffocato da chi si è piegato al sistema. Chi si oppone, chi non vuole scendere a compromessi, chi rifiuta di essere parte del meccanismo viene escluso, etichettato come “scomodo”. Il risultato è un Paese che non cresce, che non premia i migliori, ma solo i più servili.
Ecco perché l’Italia non cresce. Alcune regioni arrancano, perché chi merita viene sistematicamente omesso. La logica è chiara: non si devono infrangere le posizioni dominanti di chi governa o detiene il potere gestionale. Purtroppo, questo è un sistema balordo, clientelare e indegno, che la storia ci racconta senza lieto fine.
Perché chi è sporco dentro, e fuori appare pulito, prima o poi verrà smascherato. Il tempo tradirà la sua immagine costruita e metterà in risalto la sua vera natura. E da lì inizierà la sua demonizzazione, a cui seguiranno declassamento, disgusto e perfino odio da parte della comunità.
Potere e squilibri: la cura c’è, ma bisogna volerla
Fare bene implica farlo sempre. Essere onesti dovrebbe essere un valore intrinseco in ogni uomo o donna che aspiri a una posizione di responsabilità.
Ma la domanda è: il potere può cambiare le persone?
La risposta è sì, certamente. Il potere può causare squilibri mentali e sociali, trasformare individui normali in tiranni, rendere ciechi di fronte alla realtà. Ma la cura esiste. Basta volerla accettare.
Ecco la vera sfida per il futuro: non permettere che chi detiene il potere si trasformi in un padrone, e che chi lo subisce si rassegni alla sottomissione.
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