Giovani senza regole, società senza guida
Dalla fuga ai posti di blocco al bullismo nelle scuole: la politica ha trasmesso un messaggio pericoloso.
(di Francesco Panasci)
Sempre più adolescenti vivono la disobbedienza come normalità. Ma se la politica ammicca, la scuola cede e la famiglia abdica, il terreno diventa fertile per bullismo, baby gang e disperazione.
La cultura della fuga
La fuga dai posti di blocco è diventata quasi una moda, un gesto che per molti ragazzi equivale a una prova di coraggio da raccontare agli amici o da filmare col cellulare. Eppure dietro queste corse spesso si nascondono scooter rubati, assenza di casco, mancanza di patente, droga in tasca o, più semplicemente, il gusto di sfidare l’autorità. È una dinamica che negli anni si è trasformata in fenomeno sociale, alimentata da una politica che ha smesso di difendere le forze dell’ordine e ha preferito coccolare chi disobbedisce.
La narrazione pubblica ha rovesciato il senso della legalità: chi scappa diventa una vittima, chi ferma e controlla diventa l’aggressore. Troppi episodi di cronaca lo dimostrano: giovani che muoiono durante un inseguimento, subito trasformati in martiri dalla retorica di certi sindaci e movimenti, mentre i carabinieri o i poliziotti che facevano il loro dovere vengono dipinti come carnefici. Questo messaggio – sbagliato, distorto e profondamente ingiusto – ha insegnato agli adolescenti che correre via davanti a una paletta non è segno di vigliaccheria o illegalità, ma un gesto quasi eroico.
Così, la fuga è diventata un rituale di ribellione: più si sfugge ai controlli, più si acquisisce “prestigio” nel gruppo. È un virus culturale che mina le basi della convivenza civile, perché non è più lo Stato a stabilire le regole, ma la sfida individuale alla regola stessa.
Il segnale pericoloso della sinistra progressista
La politica che si definisce progressista ha dato negli anni un segnale devastante. Non è una questione di appartenenze ideologiche, ma un dato di fatto: quando si tollera che nelle piazze si urli “assassini” contro le forze dell’ordine, quando manifestanti e persino alcuni giornalisti scelgono di alimentare questa narrazione, si genera un messaggio distorto e pericoloso. Non risulta che il sindaco Sala abbia usato quelle parole, ma è certo che in cortei e manifestazioni esse siano state gridate e scritte, contribuendo ad avvelenare il clima.
La morte di Rami è stata un passaggio emblematico: invece di fermarsi a riflettere sul perché un ragazzo fosse in fuga, una parte della sinistra ha preferito trasformare i carabinieri in colpevoli. Ancora una volta, chi garantiva sicurezza è stato ridotto al ruolo di carnefice, mentre chi trasgrediva è stato dipinto come vittima. È un ribaltamento della realtà che confonde i giovani e li spinge a credere che scappare o ribellarsi sia sempre legittimo.
La compiacenza delle forze progressiste ha consolidato questo schema: non si è scelto di difendere lo Stato di diritto, ma di giustificare ogni forma di disobbedienza come se fosse automaticamente un atto di libertà. Così, i ragazzi hanno imparato che tutto è permesso: insultare, fuggire, aggredire. È un messaggio che mina le fondamenta della convivenza civile e che ha lasciato una ferita profonda nella società italiana.
Giovani di seconda e terza generazione: rabbia e delinquenza
C’è un’altra realtà che non si può ignorare: quella dei giovani di seconda e terza generazione, nati e cresciuti in Italia, che spesso vivono il nostro Paese non con spirito di appartenenza ma con un odio profondo. Frustrati, convinti che la ricchezza sia un diritto immediato e non il frutto di sacrifici e lavoro, cercano scorciatoie facili. È da qui che nascono nuove forme di devianza: le baby gang che spadroneggiano nei quartieri, lo spaccio di droga come via rapida al denaro, le rapine come “scuola” di affermazione.
Non si tratta di singoli episodi ma di un fenomeno che si allarga, alimentato dall’assenza di modelli positivi, da famiglie fragili e da una politica che preferisce chiudere gli occhi. Il risultato è un cambio radicale di vita: dall’integrazione promessa al culto della delinquenza, dall’opportunità di costruire un futuro onesto alla scelta consapevole della strada criminale. Una deriva che mette in crisi la sicurezza delle città e svuota di significato l’idea stessa di cittadinanza.
Scuola sotto assedio
Non va meglio nelle aule. Sempre più docenti denunciano atteggiamenti di sfida, insulti, aggressioni verbali e persino fisiche da parte di studenti che si sentono autorizzati a non rispettare alcuna regola. La scuola, che dovrebbe essere presidio educativo, diventa terreno di conflitto e specchio di una società che ha smarrito il valore dell’autorità e dell’ascolto.
In molte classi il rapporto insegnante-alunno si è ribaltato: non è più il docente a dettare il ritmo e a guidare l’apprendimento, ma il ragazzo che pretende di decidere cosa sia lecito fare, come rispondere, se alzarsi o meno, se usare lo smartphone anche durante la lezione. Episodi di bullismo, video umilianti caricati sui social, sfide lanciate per “mettere in difficoltà” i professori sono diventati routine. E l’istituzione scolastica, schiacciata tra burocrazia, genitori pronti a difendere a oltranza i figli e una politica assente, finisce per arretrare, rinunciando al proprio ruolo formativo.
Così la scuola non è più il luogo dove si impara a conoscere e a crescere, ma un campo di tensioni in cui il rispetto dell’insegnante è visto come opzionale. I ragazzi interiorizzano il messaggio che la regola può essere aggirata e che l’autorità può essere derisa. Una lezione pericolosa, che si riflette poi nella vita quotidiana, nelle strade, nei rapporti sociali e nel modo in cui questi giovani si rapportano allo Stato.
Educazione spezzata e genitori compiacenti
L’educazione oggi appare spezzata perché si è interrotto il patto tra famiglia, scuola e società. Molti genitori, invece di sostenere gli insegnanti, scelgono di schierarsi ciecamente dalla parte dei figli, giustificando ogni comportamento, anche quando è sbagliato. È una complicità che non educa, ma deresponsabilizza.
Sempre più spesso accade che un docente, dopo aver richiamato uno studente, si ritrovi di fronte a un genitore pronto ad attaccarlo, a minarne l’autorevolezza, a chiedere “spiegazioni” come se il figlio fosse intoccabile. Così i ragazzi imparano che la regola non vale, che l’autorità si può ridicolizzare e che chi dovrebbe guidarli non ha alcun potere reale.
La famiglia, invece di essere il primo argine educativo, diventa parte del problema. Genitori fuori dal mondo, incapaci di dire “no”, finiscono per crescere adolescenti convinti che tutto sia dovuto. È questa protezione malata, questa difesa a prescindere, che alimenta il bullismo, le baby gang e la violenza verbale e fisica nelle scuole. Una generazione lasciata senza limiti non impara il rispetto, ma soltanto la legge del più forte.
Cosa occorre fare
Se vogliamo invertire la rotta, non bastano appelli generici o convegni autoreferenziali. Serve ristabilire con chiarezza che le regole valgono per tutti e che chi le viola ne paga le conseguenze. La scuola deve essere rimessa al centro, con strumenti concreti di disciplina e sostegno ai docenti, senza lasciarli soli davanti a studenti e genitori aggressivi. Le famiglie devono tornare a fare i genitori, non gli avvocati difensori dei propri figli a ogni costo.
La politica, infine, deve smettere di blandire i giovani ribelli come fossero vittime del sistema e deve avere il coraggio di dire che scappare dai controlli, picchiare un professore, spacciare droga o unirsi a una baby gang non sono “gesti di libertà”, ma reati. Solo così sarà possibile restituire autorevolezza alle istituzioni e speranza alle nuove generazioni.

