Francesco, Santo e democristiano. Uno spirito libero come mai nessuno.

San Francesco e il Francesco Day del progressismo futuristico.

Solo per ricordare a noi stessi il “libero” Francesco.

 

Il nome deriva dall’ antico tedesco e significa “libero”. È patrono d’ Italia ma anche degli animali, dei commercianti e dei “lupetti” dell’ Agesci. È amato in Oriente e Occidente e il suo nome, Francesco, è tra i più diffusi in Italia e in Europa. Papa Gregorio IX lo canonizzò il 16 luglio 1228, soltanto due anni dopo la morte. Per questo motivo, il processo di canonizzazione è stato uno dei più rapidi della storia della Chiesa cattolica.  Il Poverello d’ Assisi fu anche riconosciuto da papa Pio XII, come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939 lo proclamò Patrono principale d’Italia. Così la ricorda il Martirologio Romano: «Memoria di san Francesco, che, dopo una spensierata gioventù, ad Assisi in Umbria si convertì ad una vita evangelica, per servire Gesù Cristo che aveva incontrato in particolare nei poveri e nei diseredati, facendosi egli stesso povero. Unì a sé in comunità i Frati Minori. A tutti, itinerando, predicò l’ amore di Dio, fino anche in Terra Santa, cercando nelle sue parole come nelle azioni la perfetta sequela di Cristo, e volle morire sulla nuda terra».

La gioventù spensierata da “ re dei conviti”

Francesco, l’apostolo della povertà, in effetti era figlio di ricchi, nacque ad Assisi nei primi del 1182 da Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni e dalla nobile Giovanna detta “la Pica”, di origine provenzale. Secondo le Fonti Francescane la nascita potrebbe però datarsi all’estate o all’autunno 1181. In omaggio alla nascita di Gesù, la religiosissima madonna Pica, volle partorire il bambino in una stalla improvvisata al pianterreno della casa paterna, in seguito detta “la stalletta” o “Oratorio di san Francesco piccolino”, ubicata presso la piazza principale della città umbra. La madre in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista; ma ritornato il padre, questi volle aggiungergli il nome di Francesco che prevarrà poi sul primo. Questo nome era l’equivalente medioevale di ‘francese’ e fu posto in omaggio alla Francia, meta dei suoi frequenti viaggi e occasioni di mercato; disse san Bonaventura suo biografo: “per destinarlo a continuare il suo commercio di panni franceschi”; ma forse anche in omaggio alla moglie francese, ciò spiega la familiarità con questa lingua da parte di Francesco, che l’aveva imparata dalla madre. Crebbe tra gli agi della sua famiglia, che come tutti i ricchi assisiani godeva dei tanti privilegi imperiali, concessi loro dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen. Come istruzione aveva appreso le nozioni essenziali presso la scuola parrocchiale di San Giorgio e le sue cognizioni letterarie erano limitate; ad ogni modo conosceva il provenzale ed era abile nel mercanteggiare le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui un valido collaboratore e l’erede dell’attività di famiglia. Non alto di statura, magrolino, i capelli e la barbetta scura, Francesco era estroso ed elegante, primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate, spendendo con una certa prodigalità il denaro paterno, tanto da essere acclamato “rex iuvenum” (re dei conviti) che lo poneva alla direzione delle feste.

Da combattente a convertito

Con la morte dell’imperatore di Germania Enrico IV (1165-1197) e l’elezione a papa del card. Lotario di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216), gli scenari politici cambiarono; il nuovo papa sostenitore del potere universale della Chiesa, prese sotto la sua sovranità il ducato di Spoleto compresa Assisi, togliendolo al duca Corrado di Lützen. Ciò portò ad una rivolta del popolo contro i nobili della città, asserviti all’imperatore e sfruttatori dei loro concittadini, essi furono cacciati dalla rocca di Assisi e si rifugiarono a Perugia; poi con l’aiuto dei perugini mossero guerra ad Assisi (1202-1203). Francesco, con lo spirito dell’avventura che l’aveva sempre infiammato, si buttò nella lotta fra le due città così vicine e così nemiche. Dopo la disfatta subita dagli assisiani a Ponte San Giovanni, egli fu fatto prigioniero dai perugini a fine 1203 e restò in carcere per un lungo terribile anno; dopo che i suoi familiari ebbero pagato un consistente riscatto, Francesco ritornò in famiglia con la salute ormai compromessa. La madre lo curò amorevolmente durante la lunga malattia; ma una volta guarito egli non era più quello di prima, la sofferenza aveva scavato nel suo animo un’indelebile solco, non sentiva più nessuna attrattiva per la vita spensierata e i suoi antichi amici non potevano più stimolarlo. Come ogni animo nobile del suo tempo, pensò di arruolarsi nella cavalleria del conte Gualtiero di Brenne, che in Puglia combatteva per il papa; ma giunto a Spoleto cadde in preda ad uno strano malessere e la notte ebbe un sogno rivelatore con una voce misteriosa che lo invitava a “servire il padrone invece che il servo” e quindi di ritornare ad Assisi. Colpito dalla rivelazione, tornò alla sua città, accolto con preoccupazione dal padre e con una certa disapprovazione di buona parte dei concittadini. Lasciò definitivamente le allegre brigate per dedicarsi ad una vita d’intensa meditazione e pietà, avvertendo nel suo cuore il desiderio di servire il gran Re, ma non sapendo come; andò anche in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di trovare chiarezza.

«Va’ e ripara la mia chiesa in rovina»

Ritornato deluso ad Assisi, continuò nelle opere di carità verso i poveri ed i lebbrosi, ma fu solo nell’autunno 1205 che Dio gli parlò; era assorto in preghiera nella chiesetta campestre di San Damiano e mentre fissava un crocifisso bizantino, udì per tre volte questo invito: “Francesco va’ e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina”. Pieno di stupore, Francesco interpretò il comando come riferendosi alla cadente chiesetta di San Damiano, pertanto si mise a ripararla con il lavoro delle sue mani, utilizzando anche il denaro paterno. A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, anzi pericoloso per sé e per gli altri, lo denunziò al tribunale del vescovo come dilapidatore dei beni di famiglia; notissima è la scena in cui Francesco denudatosi dai vestiti, li restituì al padre mentre il vescovo di Assisi Guido II, lo copriva con il mantello, a significare la sua protezione. Il giovane fu affidato ai benedettini con la speranza che potesse trovare nel monastero la soddisfazione alle sue esigenze spirituali; i rapporti con i monaci furono buoni, ma non era quella la sua strada e ben presto riprese la sua vita di “araldo di Gesù re”, indossò i panni del penitente e prese a girare per le strade di Assisi e dei paesi vicini, pregando, servendo i più poveri, consolando i lebbrosi e ricostruendo oltre San Damiano, le chiesette diroccate di San Pietro alla Spira e della Porziuncola.

La vocazione alla povertà e l’inizio della sua missione

Nell’aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa alla Porziuncola, ascoltando dal celebrante la lettura del Vangelo sulla missione degli Apostoli, Francesco comprese che le parole di Gesù riportate da Matteo (10, 9-10) si riferivano a lui: “Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento. E in qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se ci sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza”. Era la risposta alle sue preghiere e domande che da tempo attendeva; comprese allora che le parole del Crocifisso a San Damiano non si riferivano alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa nei suoi membri; depose allora i panni del penitente e prese la veste “minoritica”, cingendosi i fianchi con una rude corda e coprendosi il capo con il cappuccio in uso presso i contadini del tempo e camminando a piedi scalzi. Iniziò così la vita e missione apostolica, sposando “madonna Povertà” tanto da essere poi definito “il Poverello di Assisi”, predicando con l’esempio e la parola il Vangelo come i primi apostoli. Francesco apparve in un momento particolarmente difficile per la vita della Chiesa, travagliata da continue crisi provocate dal sorgere di movimenti di riforma ereticali e lotte di natura politica, in cui il papato era allora uno dei massimi protagonisti. In un ambiente corrotto da ecclesiastici indegni e dalle violenze della società feudale, egli non prese alcuna posizione critica, né aspirò al ruolo di riformatore dei costumi morali della Chiesa, ma ad essa si rivolse sempre con animo di figlio devoto e obbediente. Rendendosi interprete di sentimenti diffusi nel suo tempo, prese a predicare la pace, l’uguaglianza fra gli uomini, il distacco dalle ricchezze e la dignità della povertà, l’amore per tutte le creature di Dio e al disopra di ogni cosa, la venuta del regno di Dio.

Fonda l’Ordine dei Frati Minori

Ben presto attirati dalla sua predicazione, si affiancarono a Francesco, quelli che sarebbero diventati suoi inseparabili compagni nella nuova vita: Bernardo di Quintavalle un ricco mercante, Pietro Cattani dottore in legge, Egidio contadino e poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro ed altri fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli, formanti una specie di ‘fraternità’ di chierici e laici, che vivevano alla luce di un semplice proposito di ispirazione evangelica. Il loro era un vivere alla lettera il Vangelo, senza preoccupazioni teologiche e senza ambizioni riformatrici o contestazioni morali, indicando così una nuova vita a chi voleva vivere in carità e povertà all’interno della Chiesa; per la loro obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il vescovo di Assisi Guido prese a proteggerli, seguendoli con interesse e permettendo loro di predicare. Ai primi del 1209 il gruppo si riuniva in una capanna nella località di Rivotorto, nella pianura sottostante la città di Assisi, presso la Porziuncola, iniziando così la “prima scuola” di formazione, dove durante un intero anno Francesco trasmise ai compagni il suo carisma, alternando alla preghiera, l’assistenza ai lebbrosi, la questua per sostenersi e per riparare le chiese danneggiate. Giacché ormai essi sconfinavano fuori dalla competenza della diocesi, e ciò poteva procurare problemi, il vescovo Guido consigliò Francesco e il suo gruppo di recarsi a Roma dal papa Innocenzo III per farsi approvare la prima breve Proto-Regola del nuovo Ordine dei Frati Minori. Regola che fu approvata oralmente dal papa, dopo un suggestivo incontro con il gruppetto, vestito dalla rozza tunica e scalzo, colpito fra l’altro da “quel giovane piccolo dagli occhi ardenti”; nacque così ufficialmente l’Ordine dei Frati Minori, che riceveva la tonsura entrando a far parte del clero; sembra che in quest’occasione Francesco abbia ricevuto il diaconato.

Chiara “conquistata” dalla predicazione di Francesco e le clarisse

Tutta Assisi parlava delle “bizzarie” del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”; nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di San Rufino, dove nell’attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio e sicuramente in quell’occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c’era la giovanissima figlia Chiara. Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi dei suoi ideali di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall’amica Bona di Guelfuccio e inviandogli spesso un poco di denaro. Nella notte seguente la Domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva. Francesco, davanti all’altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore. Poi l’accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all’ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare. Successivamente Chiara e le compagne che l’avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove nel 1215 a 22 anni Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò alle “Povere donne recluse di SAN Damiano” (il nome ‘Clarisse’ fu preso dopo la morte di san Chiara) una prima Regola di vita, sostituita più tardi da quella della stessa santa. Chiara con le compagne, sarà l’incarnazione al femminile dell’ideale francescano, a cui si assoceranno tante successive Congregazioni di religiose.

L’ideale missionario

Francesco non desiderò solo per sé e i suoi frati, l’evangelizzazione del mondo cristiano deviato dagli originari principi evangelici, ma anche raggiungere i non credenti, specie i saraceni, come venivano chiamati allora i musulmani. Se in quell’epoca i rapporti fra il mondo cristiano e quello musulmano erano tipicamente di lotta, Francesco volle capovolgere questa mentalità, vedendo per primo in loro dei fratelli a cui annunciare il Vangelo, non con le armi ma offrendolo con amore e se necessario subire anche il martirio. Mandò per questo i suoi frati prima dai Mori in Spagna, dove vennero condannati a morte e poi graziati dal Sultano e dopo in Marocco, dove il gruppo di frati composti da Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto, Ottone, mentre predicavano, furono arrestati, imprigionati, flagellati e infine decapitati il 16 gennaio 1220. Il ritorno in Portogallo dei corpi dei protomartiri, suscitò la vocazione francescana nell’allora canonico regolare di Sant’ Agostino, il dotto portoghese e futuro santo, Antonio da Padova. Francesco non si scoraggiò, nel 1219-1220 volle tentare personalmente l’impresa missionaria diretto in Marocco, ma una tempesta spinse la nave sulla costa dalmata, il secondo tentativo lo fece arrivare in Spagna, occupata dai musulmani, ma si ammalò e dovette tornare indietro, infine un terzo tentativo lo fece approdare in Palestina, dove si presentò al sultano egiziano Al-Malik al Kamil nei pressi del fiume Nilo, che lo ricevette con onore, ascoltandolo con interesse; il sultano non si convertì, ma Francesco poté dimostrare che il dialogo dell’amore poteva essere possibile fra le due grandi religioni monoteiste, dalle comuni origini in Abramo.

La seconda Regola

Verso la metà del 1220, Francesco dovette ritornare in Italia per rimettere ordine fra i suoi frati, cresciuti ormai in numero considerevole, per cui l’originaria breve Regola era diventata insufficiente con la sua rigidità. Il Poverello non aveva inteso fondare conventi ma solo delle ‘fraternità’, piccoli gruppi di fratelli che vivessero in mezzo al mondo, mostrando che la felicità non era nel possedere le cose ma nel vivere in perfetta armonia secondo i comandamenti di Dio. Ma la folla di frati ormai sparsi per tutta l’Italia, poneva dei problemi di organizzazione, di formazione, di studio, di adattamento alle necessità dell’apostolato in un mondo sempre in evoluzione; quindi il vivere in povertà non poteva condizionare gli altri aspetti del vivere nel mondo. Nell’affollato “capitolo delle stuoia”, tenutosi ad Assisi nel 1221, Francesco autorizzò il dotto Antonio venuto da Lisbona, d’insegnare ai frati la sacra teologia a Bologna, specie a quelli addetti alla predicazione e alle confessioni. La nuova Regola fu dettata da Francesco a frate Leone, accolta con soddisfazione dal cardinale protettore dell’Ordine, Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX e da tutti i frati; venne approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III. In essa si ribadiva la povertà, il lavoro manuale, la predicazione, la missione tra gl’infedeli e l’equilibrio tra azione e contemplazione; si permetteva ai frati di avere delle Case di formazione per i novizi, si stemperò un poco il concetto di divieto della proprietà.

Il presepe vivente di Greccio nella Notte di Natale 1223

La notte del 24 dicembre 1223, Francesco si sentì invadere il cuore di tenerezza e di slancio volle rivivere nella selva di Greccio, vicino Rieti, l’umile nascita di Gesù Bambino con figure viventi. Nacque così la bella e suggestiva tradizione del Presepio nel mondo cristiano, che sarà ripresa dall’arte e dalla devozione popolare lungo i secoli successivi, con l’apporto dell’opera di grandi artisti, tale da costituire un filone dell’arte a sé stante, comprendenti orafi, scenografi, pittori, scultori, costumisti, architetti; il cui apice per magnificenza, realismo, suggestività, si ammira nel Presepe settecentesco napoletano.

La malattia e la morte

Dopo le ultime prediche all’inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima e dove viveva Chiara e le sue suore. E in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, egli compose il famoso “Cantico di frate Sole” o “Cantico delle Creature”, sublime poesia, ove si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando sotto ogni creatura l’adorabile presenza di Dio. Se la fede gli aveva fatto riscoprire la fratellanza universale degli uomini, tutti figli dello stesso Padre, nel ‘Cantico’ egli coglieva il legame d’amore che lega tutte le creature, animate ed inanimate, tra loro e con l’uomo, in un abbraccio planetario di fratelli e sorelle che hanno un solo scopo, dare gloria a Dio. In questo periodo, ospite per un certo tempo nel palazzo vescovile, dettò anche il suo famoso “Testamento”, l’ultimo messaggio d’amore del Poverello ai suoi figli, affinché rimanessero fedeli a madonna Povertà. Poi per l’interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale a Rieti; poi ancora a Fabriano, Siena e Cortona, ma nell’estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un’altra grave malattia, l’idropisia. Dopo un’altra sosta a Bagnara sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po’ di refrigerio, i frati visto l’aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all’amata Porziuncola, dove a tarda sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra, aveva circa 45 anni. Le allodole, amanti della luce e timorose del buio, nonostante che fosse già sera, vennero a roteare sul tetto dell’infermeria, a salutare con gioia il santo, che un giorno (fra Camara e Bevagna), aveva invitato gli uccelli a cantare lodando il Signore; e in altra occasione in un campo verso Montefalco aveva tenuto loro una predica, che gli uccelli immobili ascoltarono, esplodendo poi in cinguettii e voli di gioia. La mattina del 4 ottobre, il suo corpo fu traslato con una solenne processione dalla Porziuncola alla chiesa parrocchiale di SAN Giorgio ad Assisi, dove era stato battezzato e dove aveva cominciato nel 1208 la predicazione. Lungo il percorso il corteo si fermò a San Damiano, dove la cassa fu aperta, affinché santa Chiara e le sue “povere donne” potessero baciargli le stimmate. Nella chiesa di San Giorgio rimase tumulato fino al 1230, quando venne portato nella Basilica inferiore, costruita da frate Elia, diventato Ministro Generale dell’Ordine. Intanto il 16 luglio 1228, papa Gregorio IX a meno di due anni dalla morte, proclamò santo il Poverello d’Assisi, alla presenza della madre madonna Pica, del fratello Angelo e altri parenti, del vescovo Guido di Assisi, di numerosi cardinali e vescovi e di una folla di popolo mai vista, fissandone la festa al 4 ottobre.

(Biblioteca dei Santi)

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