Dall’università ai media: le radici del dominio culturale della sinistra in Italia
Cinquant’anni di storia spiegano perché oggi la sinistra occupa ancora i posti chiave della cultura italiana
Il lungo dominio culturale della sinistra
Una ricostruzione storica di come la sinistra ha conquistato e mantenuto i luoghi chiave della cultura italiana
Dall’università ai media: le radici del dominio culturale della sinistra in Italia
(di Francesco Panasci)
C’è una verità storica che non si può ignorare: la sinistra italiana, in tutte le sue articolazioni, ha costruito negli ultimi cinquant’anni un dominio nei luoghi chiave della cultura, delle università e dei media. Non si tratta di un complotto improvvisato, né di un’occupazione violenta: fu il frutto di una strategia lunga, di un lavoro paziente e organizzato che affonda le radici negli anni Sessanta e Settanta, quando l’Italia conobbe l’università di massa e il vento del Sessantotto.
L’egemonia non nacque all’improvviso ma fu il risultato di una vera e propria rivoluzione culturale che cambiò il volto del Paese. Il Sessantotto italiano non fu soltanto una stagione di proteste: rappresentò la creazione di un nuovo linguaggio politico, di un pensiero critico che permeò la scuola, l’università, l’editoria e la televisione pubblica. La sinistra comprese presto che il potere politico è effimero, ma il potere culturale, se ben radicato, diventa duraturo e capace di orientare generazioni.
Così, mentre la destra rimaneva ancorata al consenso elettorale e a dinamiche partitiche, la sinistra coltivava un capitale intellettuale: professori universitari che formavano studenti destinati a diventare giornalisti, magistrati, artisti e docenti; case editrici che selezionavano voci affini; programmi televisivi che alimentavano un immaginario progressista. Negli anni Settanta e Ottanta, l’Italia visse una vera e propria colonizzazione dei luoghi del sapere e dell’informazione, una colonizzazione silenziosa ma capillare, resa possibile dall’impegno costante di militanti, intellettuali e associazioni che consideravano la cultura il terreno più prezioso su cui affermare la propria visione del mondo.
Non fu una presa di potere in senso tradizionale, ma una lenta sedimentazione: ogni cattedra, ogni redazione, ogni direzione di istituto culturale diventava un tassello di un mosaico più ampio, che avrebbe fatto della sinistra il punto di riferimento intellettuale del Paese anche quando le urne raccontavano un’altra storia.
L’università di massa e l’egemonia intellettuale
La riforma universitaria del 1969, che abbassò le barriere d’ingresso, aprì gli atenei a centinaia di migliaia di studenti. Quel passaggio storico creò un terreno fertile per i movimenti studenteschi, quasi tutti di ispirazione marxista o socialista, che divennero protagonisti della vita accademica. Occupazioni, collettivi, lotte politiche e sindacali trasformarono gli spazi universitari in laboratori ideologici. In quelle aule si formarono non solo futuri politici di sinistra, ma anche giornalisti, professori, intellettuali e funzionari che negli anni successivi avrebbero avuto in mano la regia culturale del Paese.
L’università non era più soltanto un luogo di formazione tecnica o scientifica, ma diventava un campo di battaglia culturale. Il sapere veniva politicizzato, e la lezione accademica si intrecciava con l’attivismo militante. Le assemblee, i volantini ciclostilati, le occupazioni non erano episodi passeggeri, ma strumenti di pedagogia politica: la sinistra stava educando intere generazioni a pensare, parlare e agire secondo un codice ideologico preciso.
Il sistema universitario, con i suoi meccanismi di cooptazione, consolidò questo assetto. Concorsi pilotati, cattedre ereditate, circoli intellettuali: negli atenei si sviluppò una vera e propria rete autoreferenziale. Chi entrava in quell’élite accademica difficilmente poteva sottrarsi a quell’orientamento: o lo condivideva, o quantomeno lo tollerava per sopravvivere. Così, col tempo, i dipartimenti universitari divennero fucine di pensiero unico, in cui le voci alternative venivano marginalizzate o considerate folkloristiche.
Il risultato fu che, dagli anni Ottanta in poi, le università italiane produssero non solo laureati, ma soprattutto quadri culturali già orientati, pronti a riversarsi nei giornali, nelle case editrici, nelle televisioni, nelle associazioni e perfino nella pubblica amministrazione. La formazione accademica non forniva soltanto strumenti professionali, ma consegnava un imprinting politico che avrebbe determinato la traiettoria culturale dell’Italia per decenni.
Cultura politica e subculture territoriali
L’Italia, a differenza di altri Paesi europei, conobbe forti subculture politiche regionali che influenzarono profondamente la vita collettiva. In Emilia-Romagna, Toscana e Umbria, la sinistra costruì un tessuto sociale e culturale che andava ben oltre i partiti. Non si trattava soltanto di votare per una certa area politica, ma di vivere dentro un sistema complesso e pervasivo: associazioni ricreative, circoli culturali, case del popolo, cooperative editoriali, scuole di formazione e perfino squadre sportive erano impregnati della stessa visione ideologica.
Queste strutture non erano semplici strumenti di aggregazione, ma vere “palestre di identità politica”, capaci di formare cittadini fin dall’infanzia. In quelle realtà, il linguaggio, i riti e i valori erano trasmessi in maniera naturale, quasi automatica, diventando parte del DNA culturale delle comunità. La sinistra, soprattutto il Partito Comunista Italiano, aveva compreso che la battaglia politica non si vinceva solo nei parlamenti, ma nel quotidiano: nell’organizzazione del tempo libero, nell’educazione, nella produzione culturale.
Questa immersione totale rese i territori “rossi” un vero laboratorio sociale: intere generazioni furono cresciute in ambienti in cui la lealtà alla comunità politica era sinonimo di appartenenza civile. Chi cresceva in quei contesti trovava naturale riprodurre schemi di sinistra anche fuori dall’attività politica stretta: nel mondo dell’intellettualità, nelle redazioni giornalistiche, nelle università, nell’associazionismo.
Il risultato fu la creazione di una subcultura organica, che non solo resisteva al cambio dei governi nazionali ma si autorigenerava. Ogni nuova generazione trovava davanti a sé un percorso già tracciato, fatto di riferimenti culturali, di reti associative e di occasioni professionali orientate. Questo modello, unico nel panorama europeo, permise alla sinistra di costruire un capitale sociale e culturale che ancora oggi continua a incidere sulla distribuzione del potere nei luoghi chiave del Paese.
Media e giornali: il racconto del Paese
Negli anni ’70 e ’80 i quotidiani nazionali e la televisione pubblica diventarono un’estensione naturale di quel mondo. Non serviva un editto, non era necessaria un’imposizione dall’alto: bastava la selezione culturale, il filtro naturale esercitato da chi scriveva articoli, da chi montava i palinsesti, da chi decideva quali intellettuali invitare in televisione o a chi affidare le colonne culturali dei giornali. Quel processo, apparentemente neutrale, produsse invece una narrazione univoca, una cornice interpretativa del Paese che pendeva quasi sempre da una parte.
La sinistra seppe interpretare Gramsci meglio di chiunque altro. Il potere, diceva il pensatore sardo, non si conquista solo nelle urne ma soprattutto nelle “casematte della cultura”: giornali, scuole, teatri, cinema, università. E così avvenne. Il racconto della realtà quotidiana — dalle grandi questioni politiche alle cronache sociali, dalla letteratura ai programmi di intrattenimento — veniva filtrato da una lente progressista, capace di orientare la percezione collettiva ben oltre i confini della militanza.
Si consolidò un circuito in cui gli stessi intellettuali formati negli atenei vicini alla sinistra venivano poi lanciati dalle grandi case editrici, recensiti dai giornali di riferimento, invitati nei salotti televisivi della RAI o delle emittenti private, e infine premiati nei festival culturali. Una rete autoreferenziale che rafforzava l’idea di un’Italia in cui la cultura “alta” parlava quasi esclusivamente con voce progressista, lasciando alla destra soltanto nicchie marginali, spesso bollate come folkloristiche o reazionarie.
La destra, invece, per decenni restò priva di un pensiero organico capace di contendere quello spazio. Non bastava avere partiti o leader, non bastava cavalcare il consenso elettorale. Serviva un progetto culturale, un investimento strategico sui centri di produzione del sapere e dell’immaginario, e soprattutto un ricambio generazionale di giornalisti, editori, intellettuali, che non arrivò mai con la stessa compattezza e determinazione. Di fronte a un fronte progressista coeso e radicato, la destra si presentò spesso divisa, episodica, incapace di costruire continuità.
Il risultato fu che, anche nei momenti in cui governi di centrodestra conquistavano Palazzo Chigi, l’egemonia del racconto nazionale rimaneva saldamente nelle mani della sinistra, capace di influenzare l’opinione pubblica, orientare i dibattiti e consolidare il proprio ruolo di guida culturale del Paese.
Magistratura e istituzioni: il potere silenzioso
Un capitolo a parte riguarda la magistratura, forse il terreno più delicato perché intreccia cultura giuridica, carriera istituzionale e gestione del potere. Le rivelazioni di Luca Palamara hanno scoperchiato un vaso di Pandora: all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno della giustizia, le correnti non erano semplici espressioni di pluralismo, ma veri centri di potere, capaci di spartirsi incarichi, nomine e influenze. In questo contesto, le aree progressiste risultavano quasi sempre avvantaggiate, perché più organizzate e radicate.
Non si trattava di un complotto ordito a tavolino, ma di un sistema consolidato di equilibri interni che finiva per favorire uomini di sinistra nei vertici giudiziari. Chi ambiva a una procura importante o a un incarico di prestigio doveva spesso entrare nelle logiche di corrente, e quelle logiche, a loro volta, premiavano chi si muoveva dentro un orizzonte politico e culturale progressista. La giustizia, così, perdeva la sua neutralità apparente e assumeva i contorni di un’arena condizionata da dinamiche che poco avevano a che fare con il merito e molto con l’appartenenza.
Questo fenomeno non solo ha inciso sull’autonomia della magistratura, ma ha alimentato nell’opinione pubblica l’idea di un Paese in cui giustizia e cultura rispondevano a una stessa matrice politica, quella della sinistra. Un’idea che si è rafforzata negli anni grazie a inchieste mirate, a fughe di notizie che orientavano il dibattito pubblico e a una narrativa che spesso colpiva con durezza gli avversari politici di destra, mentre mostrava maggiore cautela verso i mondi vicini alla sinistra.
Il potere silenzioso della magistratura, unito all’egemonia culturale nei media e nelle università, ha finito per costituire un vero e proprio “secondo livello” di governo del Paese: meno visibile, ma non per questo meno incisivo. Una sovrastruttura che resiste ai cambi di governo e che continua a influenzare la direzione della vita pubblica italiana.
La sinistra a senso unico
C’è poi un altro aspetto che segna la distanza tra la sinistra di oggi e il Paese reale: la sua difesa a senso unico, spesso contraddittoria, delle questioni sociali. È la stessa sinistra che si indigna se un cittadino si ribella a un borseggio, ma tace di fronte alla violenza dei borseggiatori. Che si preoccupa della privacy delle ladre seriali immortalate dagli smartphone, ma trascura i diritti delle vittime. Che rivendica la difesa delle donne, purché non si tratti di donne straniere perseguitate in Paesi islamici o regimi illiberali: lì cala il silenzio, perché la narrazione rischia di incrinare l’ideologia dell’accoglienza senza limiti.
È una sinistra che parla continuamente di patriarcato, ma lo fa a convenienza, come se fosse uno strumento propagandistico e non una battaglia reale di civiltà. Che si riempie la bocca di salari e diritti del lavoro, dimenticando però che quando governava per anni non ha prodotto le riforme necessarie a garantire dignità a milioni di precari. Che oggi apre i porti senza regole, trasformando l’accoglienza in un dogma e non in una politica responsabile, caricando sulle spalle degli italiani un costo sociale enorme.
E che, soprattutto, dice “NO” a una grande infrastruttura come il Ponte sullo Stretto, un’opera che potrebbe cambiare il destino della Sicilia, del Sud e del Mediterraneo, creando sviluppo, lavoro e connessioni strategiche. Un “NO” gridato non per ragioni tecniche, ma ideologiche: perché il progetto è portato avanti dalla destra, perché in ballo c’è Salvini, e perché la sinistra contemporanea è diventata nemica della cuntintizza – la felicità, la crescita, il progresso concreto. Per loro, il progresso sembra ridursi a due parole d’ordine: accoglienza senza limiti e garantismo a senso unico.
Questo atteggiamento selettivo, di difesa ideologica a senso unico, è il simbolo più evidente di una sinistra che non interpreta più i bisogni concreti del Paese, ma piega ogni tema al proprio tornaconto politico, perdendo di vista la giustizia sostanziale e l’equità reale.
Perché oggi è difficile cambiare
Ecco perché, ancora oggi, pur con un governo di centrodestra legittimato dal voto popolare, scalfire quel sistema appare come una corsa a ostacoli. Non bastano i ministeri, non bastano le leggi: servono anni, forse decenni, per creare nuove classi dirigenti culturali, formare giornalisti, intellettuali e docenti che non si riconoscano automaticamente nella tradizione progressista.
Il punto è che la sinistra ha costruito un potere che non è contingente ma strutturale: uomini e donne in posizioni chiave non per imposizione dall’alto, ma per sedimentazione storica. Un capitale umano accumulato in cinquant’anni, che oggi continua a produrre effetti indipendentemente dalle maggioranze parlamentari.
Eppure, paradossalmente, questa sinistra che ha saputo conquistare e difendere le roccaforti culturali del Paese, oggi appare guidata da una linea politica spesso percepita come distante, persino ostile al sentire comune. La leadership di Elly Schlein incarna un progressismo radicale che per molti italiani risulta incomprensibile e perfino anti-nazionale: un’agenda costruita attorno a slogan ideologici e battaglie identitarie che poco hanno a che fare con le priorità quotidiane delle famiglie e dei lavoratori.
Temi come l’accoglienza indiscriminata, il buonismo elevato a dottrina, la difesa acritica di modelli di società sganciati dalla tradizione e dalle esigenze reali del Paese rischiano di accentuare la distanza tra i vertici della sinistra e l’Italia reale. È come se, custodendo le chiavi della cultura e dell’informazione, la sinistra avesse smarrito il legame con la sua stessa base popolare, preferendo rincorrere un internazionalismo ideologico che non trova più riscontro nel corpo vivo della nazione.
E qui sta il vero nodo: mentre la sinistra mantiene un controllo quasi egemonico dei luoghi culturali, la sua proposta politica risulta sempre più debole, elitaria, incapace di rappresentare il Paese profondo. La contraddizione è evidente: un potere culturale saldo e un consenso sociale che si assottiglia. Ma proprio questa frattura rende ancora più difficile un cambiamento, perché chi presidia i luoghi della cultura può continuare a dettare il tono del dibattito pubblico, anche quando non interpreta più la volontà della maggioranza degli italiani.
Una sfida che resta aperta
Questa non è una denuncia complottista, ma un’analisi storica. La sinistra italiana ha vinto la partita culturale perché l’ha giocata con lungimiranza e determinazione. La destra ha perso perché ha sottovalutato il peso della cultura, delle università, dei media, illudendosi che bastasse vincere nelle urne.
La sfida per il futuro, dunque, non è solo politica ma culturale: costruire pensiero, formare nuove élite, aprire spazi di libertà intellettuale dove oggi esistono equilibri consolidati. Senza questa rivoluzione silenziosa, ogni governo sarà destinato a scontrarsi con muri invisibili ma solidissimi, eretti in decenni di dominio culturale di sinistra.
Ma dentro questa cornice si inserisce un altro elemento che non può essere ignorato: la crescente sfiducia degli italiani verso la politica tutta, che rischia di travolgere indistintamente destra e sinistra. I social media lo certificano quotidianamente: basta leggere i commenti e intercettare l’umore diffuso per rendersi conto di quanto sia ampia la distanza tra la sinistra di oggi e quella di un tempo, che pure sapeva parlare alle classi popolari e intercettare bisogni concreti.
L’attuale sinistra, invece, si presenta come un’avanguardia ideologica contrapposta al Paese reale. Non a caso, su temi cruciali come l’immigrazione clandestina, i partiti di opposizione — dal PD ai Verdi — scelgono di rivolgersi all’Europa per denunciare l’Italia, auspicando multe e sanzioni pur di ostacolare le iniziative del governo. Una scelta che molti cittadini percepiscono come anti-italiana, perché piegata non all’interesse nazionale ma alla logica del boicottaggio interno.
Ed è qui che emerge l’incoerenza più evidente: gli stessi partiti che oggi dall’opposizione avanzano proposte di riforma e parlano di diritti e di futuro, hanno avuto negli ultimi undici anni la possibilità di governare, spesso senza un mandato popolare diretto, eppure non sono riusciti a realizzare nulla di quanto oggi agitano come bandiere. È una contraddizione che gli italiani hanno già bocciato nelle urne, punendo una sinistra capace di mantenere il controllo culturale ma incapace di tradurre quel potere in risultati concreti per la società.
La sfida che resta aperta, dunque, non riguarda soltanto la capacità del centrodestra di costruire una propria egemonia culturale, ma anche la possibilità per il Paese di liberarsi da un modello politico che ha smesso di rappresentarlo. Solo recuperando fiducia, restituendo dignità al merito e ponendo fine alla logica delle élite autoreferenziali sarà possibile aprire davvero un nuovo capitolo. In caso contrario, la distanza tra istituzioni e cittadini continuerà a crescere, e con essa la sensazione di un’Italia bloccata da un potere che parla di futuro mentre resta ancorato al passato.
Guardare oltre: la responsabilità della destra
Se da un lato è innegabile che la sinistra abbia costruito un’egemonia culturale radicata e capillare, dall’altro non si può tacere sulle responsabilità della destra. Perché cambiare rotta significa anche avere il coraggio di guardare oltre i semplici equilibri di consenso e oltre chi ha portato voti. Serve investire su uomini e donne che, pur essendo di destra, oggi non trovano spazio per esprimere le proprie competenze: professionisti, intellettuali, studiosi, operatori culturali che potrebbero davvero contribuire a riequilibrare la partita nelle università, nei media e perfino nella magistratura.
Il governo in carica, pur avendo avviato alcuni segnali di cambiamento, fatica ancora a rilanciare le migliori energie interne. Eppure è da lì che deve partire la rivoluzione: dare voce ai talenti, rompere le logiche di appartenenza, creare una nuova classe dirigente capace di contrastare decenni di monopolio culturale. Questo editoriale non vuole segnare un’appartenenza politica, ma evidenziare i drammi e le colpe della destra, che troppe volte ha chiuso gli occhi davanti a una sfida cruciale.
C’è bisogno di un cambio di passo. Perché la cultura non è un accessorio, ma lo spazio vitale in cui si forma l’identità collettiva.
La nostra identità nazionale rischia di essere stracciata, bruciata, eclissata da un modello politico imposto anche dall’Europa, che pretende di dettare linee guida al nostro Paese pur non avendo un peso reale nello scacchiere mondiale. Bruxelles parla di sostenibilità, accoglienza, transizioni forzate, ma fatica a difendere i propri cittadini e a garantire stabilità economica. La sua irrilevanza nei grandi equilibri internazionali è evidente: l’Europa è rimasta ai margini sia nel conflitto tra Russia e Ucraina sia nella tragedia che vede contrapposti Israele e Hamas. In entrambi i casi, l’Unione si è limitata a dichiarazioni, prese di posizione diplomatiche e voti in aula, mentre le vere decisioni venivano prese a Washington, Mosca o Pechino.
È dentro questa debolezza strutturale che si inserisce il rischio per l’Italia: subire direttive calate dall’alto, in nome di un progressismo ideologico che non rappresenta i bisogni del Paese reale. L’accoglienza illimitata, la burocratizzazione delle imprese, i vincoli ambientali gestiti come dogmi religiosi e non come opportunità concrete: tutto questo pesa sulle famiglie, sui lavoratori, sugli imprenditori, senza restituire in cambio né sicurezza né crescita.
Eppure, gli italiani desiderano altro. Chiedono sviluppo per un’economia che non può restare intrappolata nei vincoli europei. Chiedono lavoro che sia dignitoso e non frutto di precarietà infinita. Chiedono soprattutto sicurezza, la priorità assoluta, perché senza sicurezza non c’è libertà, non c’è convivenza civile, non c’è futuro per i giovani. E chiedono giustizia, un valore che oggi appare svuotato, travolto da procedure infinite e da una percezione di impunità che mina la fiducia nello Stato.
Per il resto, ognuno faccia la sua parte, ma una cosa è chiara: il futuro non può essere organizzato da chi non crede nella propria storia, da chi si vergogna della propria identità e preferisce svenderla per fini ideologici al primo che passa. L’Italia ha bisogno di una classe politica che non pieghi il capo di fronte ai diktat, che non trasformi il buonismo in programma di governo, che sappia rivendicare la nostra sovranità culturale e politica con la stessa forza con cui i nostri padri hanno costruito la Repubblica.
Francesco Panasci






