Chi indossa la divisa muore. Ma il criminale diventa fragile
Silenzio della stampa, ipocrisia delle piazze: chi difende lo Stato viene ignorato, chi lo disprezza viene giustificato.

Quando l’informazione delegittima lo Stato. E la divisa diventa un bersaglio.
Media, politica e ideologia: la cultura del sospetto verso chi indossa una divisa si è trasformata in odio sistemico.
Viviamo in un Paese in cui l’odio verso le forze dell’ordine è diventato quasi una moda culturale. Un veleno lento, alimentato ogni giorno da una parte dell’informazione, da certa politica e da chi predica giustizia a senso unico. L’ultimo episodio – il carabiniere ucciso da chi non si è fermato all’alt – è stato raccontato con freddezza, senza indignazione, senza le aperture di prima pagina che invece vengono riservate solo quando la vittima può essere narrata come simbolo di ribellione o disagio.
I giornali “di sinistra” hanno dato sì notizia, ma in seconda fila, con cautela, con quella prudenza selettiva che hanno sempre quando a cadere è un uomo dello Stato. Quando invece perse la vita il giovane Rami – durante una fuga da un posto di blocco, mentre era nel torto – fu tutta un’altra musica: titoli gridati, manifestazioni, cortei, accuse pubbliche contro i carabinieri definiti addirittura “assassini”.
Non solo è ingiusto. È intollerabile. È il sintomo di una cultura deviata, in cui il crimine viene romanticizzato e la legalità criminalizzata.
Un Paese spaccato tra chi difende e chi giustifica
C’è un’Italia che si sveglia ogni giorno per servire lo Stato: poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari. E ce n’è un’altra che si sveglia per delegittimarli. Alcuni con la penna, altri con slogan, altri ancora con sentenze costruite nei salotti televisivi. E questa narrazione sbilanciata ha conseguenze gravi: crea sfiducia, divisione, disorientamento sociale. Ma soprattutto spiana la strada all’illegalità, che si sente spalleggiata, coccolata, difesa.
Perché un criminale che scappa non viene più visto come tale. Viene raccontato come un “ragazzo fragile”, un “giovane da recuperare”, uno che “stava cercando di cambiare”. E allora quando l’inseguimento finisce male, la colpa non è mai sua. È sempre di chi indossa la divisa.
Chi alimenta l’odio, spegne lo Stato
Questa tendenza non nasce per caso. È il frutto di anni di giustificazionismo sistematico, di populismo giudiziario, di un certo intellettualismo militante che ha fatto della legalità un concetto flessibile. Per alcuni, la legge è da rispettare solo se va a colpire il “potere”, mai quando serve a difendere l’ordine.
Ed è qui che i media, o almeno una parte di essi, tradiscono il loro compito più alto: raccontare con onestà. Non esiste parità di trattamento tra vittime e carnefici. Non esiste rispetto istituzionale. Esiste solo un gioco narrativo: chi può essere spinto come simbolo e chi può essere ignorato come danno collaterale.
Una crisi profonda di coscienza collettiva
In questo schema malato, il carabiniere morto nell’ultimo giorno di servizio diventa un “caso minore”. Nessun grido. Nessun corteo. Nessun hashtag. La famiglia? Lasciata sola, come sola è l’Arma. Come solo è lo Stato, ogni volta che viene colpito nel suo cuore.
Ecco perché non è solo un problema di cronaca. È una crisi morale, civile, culturale. È il fallimento di una certa idea di Paese che protegge chi viola e disprezza chi protegge.
Quando legalità e illegalità si scambiano i ruoli nella narrazione pubblica, l’unico vero sconfitto è il cittadino onesto.